Pachamama.
Ho letto questa parola per la prima volta mentre ero impegnata con Susana, la collega che viene dal Perù con cui, ogni mese, condivido le riflessioni e i contenuti per questa newsletter. Stavamo preparando un progetto sulla biodiversità, quando in un articolo in merito alla COP16 si è fatto riferimento alla preghiera alla "Pachamama".
"Nel mio Paese
- mi ha detto -
ancora molte comunità sono abituate a ringraziare Madre Terra.”
E mentre parlava, ho capito che non era un semplice aneddoto, ma un invito a ripensare il nostro modo di abitare il pianeta.
Mi ha raccontato di una pratica molto diffusa nelle Ande peruviane, dove le comunità si riuniscono per ringraziare “Pachamama” attraverso offerte simboliche: foglie di coca, semi, fiori, vino, dolci. Un gesto antico e collettivo che non nasce dal desiderio di ottenere, ma dal bisogno di restituire. Questo rito riflette un sapere ecologico radicato, che riconosce nella reciprocità con la natura un principio fondante di giustizia climatica.
Lo stesso concetto rilanciato nella conferenza “Fortaleciendo las voces indígenas rumbo a la COP30”, dove si è sottolineata l’importanza di integrare le conoscenze ancestrali nella costruzione delle politiche ambientali. Non come folklore, ma come forma concreta di resilienza e coabitazione planetaria.
Il rito della Pachamama o "Pago a la Tierra"
Quando parliamo di sostenibilità, ci proiettiamo spesso nel futuro: tecnologie emergenti, modelli predittivi, scenari globali. Ma esiste un sapere già presente, consolidato, che per secoli abbiamo ignorato: quello delle comunità indigene.
Un sapere fondato sull’esperienza, sull’osservazione degli ecosistemi e su una relazione continua con la natura. Non si basa su estrazione e controllo, ma su cura, reciprocità e appartenenza.
Oggi anche la comunità scientifica ne riconosce il valore: integrare questi saperi nei modelli di gestione ambientale rafforza la resilienza degli ecosistemi, migliora le politiche climatiche e restituisce centralità a chi quei territori li vive, li ascolta, li custodisce da generazioni.
E allora proviamo ad ascoltarli. Questi saperi non ci parlano solo di conservazione, ma di coesistenza. Di un altro modo di stare al mondo.
Un Firelighter accende un fuoco tradizionale sulle terre del popolo Yurok, seguendo pratiche culturali ancestrali
Il fuoco non è sempre un nemico. In molte culture indigene è tutt’altro: un sistema ecologico millenario, capace di favorire la biodiversità e proteggere i boschi. Ad esempio, in California le tribù Yurok hanno ripreso il cultural burning, incendi controllati programmati, per prevenire incendi catastrofici, promuovere la crescita di piante autoctone e proteggere specie come la quercia e il nocciolo. Oggi questo approccio è riconosciuto anche dai vigili del fuoco statunitensi come uno strumento efficace di gestione del territorio.
@East-West Center
Dal 1988 a oggi, le foreste del Nepal sono aumentate di circa il 22%, arrivando a coprire il 45% del territorio nazionale. Un risultato straordinario reso possibile grazie alla gestione comunitaria delle risorse forestali, affidata proprio alle popolazioni locali e indigene. A confermarlo è anche uno studio indipendente dell’East-West Center, sostenuto dalla NASA, che documenta come tra il 1992 e il 2016 la copertura vegetale del Paese sia quasi raddoppiata. Un cambiamento reso possibile non solo da politiche ambientali, ma da un cambio di mentalità nel modo di pensare la foresta.
Prima, quando era proprietà esclusiva dello Stato, era vista come una risorsa da cui attingere: alberi da tagliare, legna da raccogliere. Oggi, con l’affermazione della gestione comunitaria, è riemersa una visione antica: quella che le comunità indigene del Nepal hanno sempre custodito. La foresta non si possiede. Si abita, si rispetta, si protegge. È parte della propria identità, del proprio villaggio, del proprio futuro.
Questo approccio non è solo gestionale, ma culturale: si fonda su una relazione profonda tra le persone e l’ecosistema, su un senso di appartenenza che rende ogni gesto di cura un atto collettivo. Non è solo riforestazione: è rigenerazione reciproca.
Gli allevatori di renne della Penisola di Jamal
Nell’Artico siberiano, le comunità indigene di pastori di renne stanno dimostrando come il sapere tradizionale possa integrarsi con la scienza moderna per affrontare il cambiamento climatico.
Conosciuti per la loro esperienza millenaria nel seguire gli spostamenti delle mandrie secondo i ritmi naturali, hanno instaurato partnership con scienziati, meteorologi e agenzie come la NASA per monitorare le transumanze e prevedere i cambiamenti nelle rotte dei ghiacci.
Grazie al progetto Ipy Ealat, i pastori di renne siberiani integrano conoscenze ancestrali e dati satellitari per monitorare l’ambiente, anticipare i cambiamenti climatici e adattare le migrazioni. Una collaborazione che unisce cultura e scienza, tutelando paesaggi fragili e saperi millenari.
E se le aziende iniziassero ad ascoltare il territorio?
Nel mondo business, la sostenibilità spesso si traduce in reporting, ESG, KPI. Ma cosa succederebbe se le imprese mettessero davvero al centro il territorio, i suoi ritmi, le sue comunità?
Alcuni segnali (per fortuna!) stanno già emergendo.
Cooperazione per impianti rinnovabili con popolazioni indigene
In Canada, alcune imprese energetiche coinvolgono cooperative indigene nella progettazione di impianti per le energie rinnovabili, condividendo governance e benefici economici. Un modello che rafforza l’accettazione sociale e costruisce valore condiviso.
Residenze artistiche tra impresa e paesaggio
Proprio qui da noi, in Friuli, il centro Art Aia organizza esperienze in cui artisti vivono e lavorano a stretto contatto con agricoltori, attivisti e imprese locali. Non è solo arte: queste collaborazioni diventano occasioni per ripensare il legame con l’ambiente, stimolare nuove idee su sostenibilità, cambiamento climatico, uso del suolo. Le opere create – installazioni, laboratori, performance – restituiscono una visione più profonda e concreta del territorio, che può influenzare anche le strategie aziendali.
Economia circolare su scala territoriale
Ohoskin di Adriana Santanocito
In Sicilia, un’azienda ha deciso di ripensare radicalmente il concetto di scarto. Si chiama Ohoskin® e ha creato un materiale alternativo alla pelle animale partendo da sottoprodotti di arance e cactus. Il risultato? Un prodotto resistente, elegante, durevole e completamente Made in Italy, pensato per l’industria del lusso e realizzato con un approccio di economia circolare.
Iniziative che dimostrano come la sostenibilità industriale possa nascere da risorse locali, evitando sprechi e valorizzando saperi endogeni.
Sono ancora eccezioni, ma mostrano una direzione possibile. Invece di parlare solo di stakeholder, accountability e compliance, potremmo iniziare a considerare parole come custodia, coabitazione, interconnessione.
Ritornare in relazione
Susana mi ha detto: “In Perù, in molte comunità, si impara ancora oggi fin da piccoli che con la Madre Terra non esiste proprietà: esiste solo relazione. Noi apparteniamo a lei, non il contrario.” Quelle parole semplici hanno cambiato profondamente il mio modo di pensare alla sostenibilità.
Forse non abbiamo bisogno di altre strategie. Forse abbiamo bisogno di ricominciare da una relazione. Da una sostenibilità meno performativa e più consapevole. Da gesti quotidiani, condivisi, che riconoscono il nostro posto nel mondo e non al centro di esso.
Sono sicura che infondo lo sai: per abitare bene questo pianeta, dobbiamo prima imparare a starci. In ascolto. Con rispetto. Con memoria.
Come canta Levante:
"Abbi cura di me
Cura di noi
Per ogni passo che ho fatto per venire fino a te
Per quelli che farei, per quelli che farò"
Piccole scelte di attenzione quotidiana, il coraggio silenzioso di esserci davvero, di prendersi cura delle cose importanti. Semplicemente, senza esagerazioni.
A presto,
Chiara Pontoni
Sustainability Manager Gesteco