Con il cambio dell’ora arriva quella luce più bassa e tagliente, che cambia le prospettive e ci costringe a guardare diversamente le cose. L’autunno ha sempre avuto su di me un effetto curioso: non malinconico, ma lucido. È la stagione in cui la natura ci mostra come si può cambiare con grazia, senza perdere sé stessi. Le foglie non muoiono: si trasformano, e in quella trasformazione ci ricordano che la vita è fatta di passaggi, non di rotture. È un pensiero quasi filosofico, ma concreto: anche noi, come esseri umani, siamo chiamati a rinnovarci continuamente.
Oggi più che mai, il cambiamento è misurabile: il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato (+1,5 °C rispetto alla media preindustriale, Agenzia Europea dell’Ambiente) e, secondo il Fondo Monetario Internazionale (IMF), circa il 60% dei lavori nei paesi avanzati sarà esposto all’intelligenza artificiale e ai suoi effetti entro il 2030, con un impatto profondo sulla struttura delle professioni. Viviamo in un ecosistema che evolve in tempo reale, dove clima, tecnologia e abitudini si influenzano a vicenda e la velocità non è più un vantaggio, ma la nuova condizione del nostro tempo.
I cambiamenti ci attraversano e ci plasmano, chiedendoci non solo di reagire, ma di partecipare attivamente alla sua direzione. E allora penso che la sostenibilità, che sia personale, sociale, aziendale, sia proprio la capacità di attraversare questi cambiamenti senza perdere direzione. Come alberi che, pur spogliandosi, restano radicati. Perché cambiare, davvero, non significa adattarsi per sopravvivere, ma evolvere per continuare a dare senso.
Workshop di co-design SAP: per la nuova sede di Milano, i dipendenti hanno progettato insieme spazi e modalità di lavoro flessibili, diventando protagonisti di una trasformazione inclusiva e sostenibile.
Se spostiamo lo sguardo dalle trasformazioni del mondo esterno a quelle interne alle organizzazioni, il quadro non cambia molto. Secondo il World Economic Forum (Global Risks Report 2025), oltre il 70% delle imprese europee ha affrontato negli ultimi tre anni un processo di trasformazione organizzativa; eppure, solo una su tre lo definisce un successo. Il motivo? Non la tecnologia, ma la cultura aziendale.
E qui la connessione torna evidente: la sostenibilità e il change management parlano la stessa lingua, quella della trasformazione consapevole. Entrambi richiedono tempo, partecipazione, visione di lungo periodo e la capacità di mettere le persone al centro, proprio come la natura richiede equilibrio per rigenerarsi.
Non a caso, l’ONU descrive la sostenibilità come l’equilibrio tra i bisogni del presente e la capacità delle generazioni future di rispondere ai propri: un principio che, alla luce delle crisi ambientali e tecnologiche, assume un significato ancora più concreto e operativo. Ma forse, se ci pensi, possiamo anche spingerci oltre questa definizione, pensando alla sostenibilità come a una forma di equilibrio dinamico: una tensione costante tra stabilità e trasformazione. Non solo un patto tra generazioni, ma una competenza collettiva di ascolto, adattamento e visione.
Per le organizzazioni, questo significa molto più che garantire continuità: vuol dire saper evolvere senza disperdere senso, mantenere coerenza mentre tutto intorno cambia. Un cambiamento è sostenibile quando riesce a coniugare innovazione e memoria, quando rigenera valore invece di inseguirlo, e quando lascia spazio all’imprevisto come occasione di apprendimento.
Microsoft. Quando Satya Nadella assunse la guida dell’azienda nel 2014, trovò una cultura interna rigida e competitiva, poco incline alla collaborazione. La sua strategia di change management fu centrata sul concetto di growth mindset: incoraggiare la sperimentazione, la curiosità e la formazione continua. Questa trasformazione culturale ha reso Microsoft un punto di riferimento nel cloud computing e nell’intelligenza artificiale, con un valore di mercato quadruplicato. La cultura del “learn-it-all” ha sostituito quella del “know-it-all”, generando un ambiente in cui la vulnerabilità e l’apprendimento sono diventati competenze strategiche.
IBM. Negli anni ’90, Lou Gerstner affrontò una delle più grandi trasformazioni nella storia del management moderno. Sostituì una logica orientata al prodotto con un paradigma basato sul servizio, promuovendo una struttura organizzativa più snella e collaborativa. Sotto la sua leadership, l’azienda divenne pioniera della consulenza digitale e dell’outsourcing tecnologico, segnando un cambio di paradigma nel concetto stesso di impresa tecnologica. Il valore di mercato passò da 13 a 168 miliardi di dollari, trasformando IBM in un caso di studio sul valore della leadership adattiva.
LEGO. Nel 2004, la crisi di sovrapproduzione e la perdita di identità spinsero il CEO Jürgen Vig Knudstorp a ridefinire il modello di business. Puntò su un approccio di innovazione aperta, integrando feedback di clienti e community di appassionati. Il risultato non fu solo un ritorno alla redditività, ma la creazione di un ecosistema di co-creazione in cui i consumatori sono parte attiva del processo innovativo. Oggi LEGO è considerata un laboratorio di sostenibilità e design circolare, con forti investimenti in bioplastiche, riduzione delle emissioni e packaging compostabili.
Il Gruppo Lego ha presentato un prototipo di mattoncino Lego realizzato con plastica riciclata, l'ultimo passo nel suo percorso per realizzare prodotti Lego con materiali sostenibili. Il nuovo prototipo, che utilizza PET riciclato da bottiglie post-consumo.
Ford. Con l’arrivo di Alan Mulally nel 2006, Ford adottò un modello di governance unificato sotto la visione One Ford, fondato su trasparenza, responsabilità diffusa e comunicazione orizzontale. L’approccio di Mulally introdusse riunioni collaborative settimanali e sistemi di feedback che permisero di abbattere le barriere tra i reparti. Il tasso di engagement dei dipendenti salì dal 40% al 92%, mentre la redditività tornò positiva nel 2009 senza ricorrere a salvataggi pubblici.
“Invece di estrarre valore dalla natura e trasformarlo in ricchezza, stiamo usando la ricchezza creata da Patagonia per proteggerne la fonte. Stiamo rendendo la Terra il nostro unico azionista. Sono seriamente intenzionato a salvare questo pianeta”. - Yvon Chouinard.
Patagonia. L’azienda di outdoor fondata da Yvon Chouinard è un esempio contemporaneo di come il cambiamento possa nascere da un principio etico. La decisione di trasferire la proprietà a una fondazione per finanziare progetti ambientali rappresenta un nuovo paradigma di governance sostenibile. Patagonia ha dimostrato che un modello rigenerativo può essere economicamente solido, con un tasso di fidelizzazione dei clienti superiore rispetto ai competitor.
In tutti questi casi, il fattore comune non è stato solo il cambiamento strategico, ma la capacità di tradurlo in un processo umano e metodologico. Le aziende resilienti non si limitano ad adattarsi: imparano a rigenerarsi e questo accade solo quando le persone che le compongono si sentono parte di un progetto condiviso. I dipendenti, se guidati con visione, fiducia e formazione, diventano moltiplicatori del cambiamento: lo rendono concreto nelle scelte quotidiane, lo alimentano con idee e lo consolidano attraverso la collaborazione. Sono sistemi aperti che coniugano metodo e visione, innovazione e memoria, mostrando che la vera sostenibilità organizzativa nasce dal coraggio di cambiare restando coerenti con la propria identità e dal riconoscere nelle persone la forza generativa del cambiamento stesso.
Il change management non è un progetto una tantum, ma un processo continuo, un ciclo vitale che si rigenera a ogni passaggio organizzativo.
John P. Kotter ha delineato un processo in otto passi per guidare il cambiamento che è diventato un vero e proprio pilastro per le organizzazioni di tutto il mondo.
I modelli più efficaci condividono la stessa logica: preparare, accompagnare, consolidare , ma oggi a questi tre verbi se ne aggiunge un quarto, fondamentale: misurare. Perché un cambiamento che non si osserva e non si valuta rischia di essere solo percepito, non reale.
A questi, oggi, si affiancano approcci più recenti come il Sustainability Change Model, che unisce il cambiamento organizzativo ai principi ESG e alla transizione ecologica. In questo quadro, le aziende inseriscono nei piani di cambiamento indicatori ambientali, sociali e di governance. Un cambiamento è davvero sostenibile quando integra queste dimensioni nelle decisioni quotidiane e quando la trasformazione non è solo miglioramento operativo, ma anche evoluzione culturale.
Alcune imprese stanno persino adottando pratiche ibride, ispirate al design thinking e all’approccio agile, per rendere il cambiamento più inclusivo e misurabile.
Testare, correggere, apprendere: una logica che rispecchia quella della natura, dove ogni adattamento nasce dall’osservazione e dalla risposta consapevole all’ambiente.
In sintesi, i modelli di change management del futuro non saranno solo strumenti di gestione, ma ecosistemi di apprendimento sostenibile, capaci di combinare razionalità, dati e umanità.
Secondo il “Global Human Capital Trends" report di Deloitte, i CEO riconoscono ampiamente l'importanza della cultura e del fattore umano per il successo del business e l'adattabilità. Eppure, solo il 41% dei lavoratori afferma che la propria organizzazione sta promuovendo in qualche modo la sostenibilità sociale in azienda.
Il motivo è semplice: cambiare richiede un lavoro interiore.
Serve educare alla consapevolezza, coltivare empatia, ridare valore all’ascolto. Le organizzazioni che funzionano oggi sono comunità che apprendono, non macchine produttive.
Le aziende più mature nella sostenibilità adottano la stessa logica: creano leadership diffuse, promuovono formazione continua, valorizzano il benessere come leva di produttività.
Perché, come ricordava Peter Drucker, "la cultura mangia la strategia a colazione".
Il change management non è solo un approccio organizzativo, ma un modo di pensare il futuro. È la capacità di leggere il cambiamento come una responsabilità collettiva, di riconoscere che ogni scelta, individuale o aziendale, ha un impatto su sistemi più ampi: sociali, ambientali, culturali. Cambiare non significa reagire, ma prevedere, rigenerare, creare nuovi equilibri.
Essere sostenibili oggi vuol dire questo: accettare che non esiste più una linea retta tra causa ed effetto, ma una rete di connessioni da comprendere e orientare. Significa imparare a gestire l’incertezza con metodo, ma anche con immaginazione. È una forma di intelligenza adattiva, dove dati, intuizioni e sensibilità umana si intrecciano per guidare le trasformazioni.
Ecco allora che la sostenibilità diventa un esercizio quotidiano di coraggio e curiosità, una costruzione che accetta l’imperfezione come condizione naturale di ogni crescita.
Come sottolinea il sociologo statunitense Alvin Toffler:
"Gli analfabeti del futuro non saranno quelli che non sanno leggere e scrivere, ma quelli che non sanno imparare, disimparare e reimparare."
Forse è proprio qui che si trova la chiave del cambiamento sostenibile: nella capacità di rimanere curiosi, di non irrigidirsi mai. Perché cambiare non è un atto di rottura, ma di conoscenza. E, in fondo, anche di fiducia.
Questa volta vi saluto con il grande Vasco.
A presto,
Chiara Pontoni
Sustainability Manager